I giorni di Trieste: 1918 – Finis Austriae

 5558I giorni di Trieste: La città della cultura
Teatro Verdi 12/01/2014
Prof Quirino Principe

Gli anni Venti rappresentano l’epoca delle maggiori e più destabilizzanti novità apparse in Europa nel Novecento. Il 1918 ne è la porta d’ingresso, per Trieste si presentano tante nuove realtà: la fine di un lungo dominio soltanto in parte sentito come “straniero”, l’annessione a uno Stato italiano per la prima volta esistente nella storia, una vocazione internazionale capovolta per cui ciò che prima era il dentro diviene il fuori e viceversa. Crescono intelligenze nuove nel campo della psicoanalisi, della musica, della letteratura.

Trieste-1918-bLa gioia di sentirsi italiani si trasformò presto in profonda infelicità, la città comincia presto a vivere contrasti, anche violenti, tra le diverse etnie e inoltre si trova amputata del suo entroterra, Trieste era l’unico porto dell’Impero, un grande bacino commerciale e generava un ampio flusso di interessi nell’Adriatico e nel Mediterraneo, ora invece era solo uno dei tantissimi porti d’Italia, che non assicurava più a Trieste ciò che l’Austria, universo delle certezze, aveva promesso, diventava solo una gemma da mettere nel tesoro.
Se dal punto di vista commerciale assistiamo a una decadenza, dal punto di vista culturale la città comincia a vivere una forte crescita, la letteratura e le altre arti da nascoste cominciano ad uscire alla scoperto.
Trieste_libreriaAntiquaria“La Coscienza di Zeno” di Svevo, “Il Canzoniere” di Saba, “Ulisse” di James Joyce (i primi tre capitoli sono scritti a Trieste), Roberto Blazen e la casa editrice Adelphi, Edoardo Weiss che importa Freud in Italia e lo divulga, la baronessa Von Rittmeyer che lasciò tutti i suoi beni ai ciechi, Drusilla Tanzi, triestina, la famosa “Mosca”, moglie e musa di Eugenio Montale, sono solo alcuni degli avvenimenti culturali legati a Trieste che influenzarono la letteratura italiana.
La nostalgia dell’impero che abitò Trieste dopo il 1918 fu invasa culturalmente dal mito dell’Austria e perfino di un intero “mondo che fu”, perno di un mito del ricordo che è stato oggetto di infinita letteratura, di arte, di cinema, poesia, e analisi, autoanalisi e psicoanalisi.

Ma che cos’è la Finis Austriae?

5558_10La fine dell’Austria,del suo impero, dei principi e di tutto l’organismo politico, economico, sociale e burocratico che aveva contraddistinto lo stato asburgico dalla nascita, attraverso l’apogeo (fine del ‘700 con l’Imperatrice Maria Teresa) fino alla fine nel 1918, per mano dell’esercito italiano guidato da Armando Diaz, il Generalissimo di Vittorio Veneto.
La fine venne imposta dal senso di cambiamento, dalle inquietudini e dalle perplessità che cominciavano a farsi strada dall’inizio del ‘900, nonché dalla crisi dell’apparato burocratico e statale, che ebbero un ulteriore accelerata con l’inizio del conflitto. Il disastro patito segnò la fine dell’impero austriaco e della dinastia che ne aveva segnato per secoli i destini, gli Asburgo.

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Chiesa Evangelica Luterana

9669176073_d176f427f1_oIn Largo Panfili, dietro il Palazzo delle Poste, troviamo la Chiesa Evangelica Luterana di Trieste (aperta al pubblico da martedì a venerdì 10-12) in stile neogotico, progettata dall’architetto Zimmermann di Breslavia ma realizzata dagli architetti Giovanni Berlam e Giovanni Scalmanini su un’area occupata in passato dallo squero Panfili e poi dal Palazzo della Dogana.
Sebbene la comunità Evangelica di Confessione Augustana sia presente a Trieste dall’inizio del ‘700, grazie alla presenza del porto franco, la libertà di culto fu autorizzata dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria soltanto nel 1778, e la chiesa fu aperta nel 1874.

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L’edificio emerge nitidamente all’interno del Borgo Teresiano grazie al tipico stile neogotico con le sue guglie, i tetti a spiovente in lastre di ardesia, i pinnacoli ed alla notevole altezza del campanile che arriva fino a 50 metri, le dimensioni sono in lunghezza di 35 ed in larghezza di 22 metri, rivestito in pietra calcare del Carso (Monrupino) così come le quattro colonne levigate, poste all’interno della chiesa. Le fondamenta del Campanile, eretto sul portale d’ingresso, poggiano su 238 pali di legno, dovuti affondare nel terreno molle della zona, un tempo occupato da saline.

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Le tre campane, di cui è rimasta una, vennero fuse dalla canna di un cannone francese, catturato dai prussiano durante la guerra di Sedan del 1870, e donata dall’Imperatore Guglielmo I. Sulla torre campanaria si trovano sculture raffiguranti animali fantastici, tipici dell’arte gotica.

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L’interno, che evidenzia ancora di più il contrasto tra la struttura ed i monumenti funebri di stile neoclassico, con la vetrata centrale del coro, realizzata a Monaco di Baviera e raffigurante la “Trasfigurazione di Cristo” di Raffaello. Il fonte battesimale fu un dono di Heinrich Renner e, come l’altare e il pulpito, fu eseguito dal falegname artistico Buhl di Breslau. Sulla parete di destra si trova la crocifissione di un pittore della scuola veneziana, dono della famiglia Hausbrandt. L’organo fu costruito dal fabbricante Steinmeyer, di Alt Oettingen in Baviera.

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I due monumenti funebri di stile neoclassico sono eseguiti da Antonio Bosa da Bassano, allievo di Canova nel 1873, ed erano collocati nella Chiesa del Rosario e poi trasferiti in quella attuale, uno è dedicato al negoziante di borsa  Giorgio Enrico Trapp, l’altro al console danese G. Dumreicher d’Osterreicher. Furono pure trasferite dalla prima chiesa le tre lapidi murate nella sacrestia, tutte datate 1786, che recano dediche all’imperatore Giuseppe II ed ai due governatori di Trieste, Conte Karl von Zinzendorf und Pottendorf e Conte Pompeo de Brigido.

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Martin Lutero

Nel 1517 Martin Lutero affigge 95 tesi alla porta della chiesa di Wittenberg. Da allora inizia la Riforma; egli contrappone l’autorità della Bibbia a quella dei papi e dei concili che non ritiene infallibili, inoltre la società del tempo (fine medioevo) ha paura dell’inferno, e la Chiesa coltiva questa paura e la sfrutta con la vendita delle indulgenze, ovvero un perdono delle pene e dei peccati, uso poco spirituale che Lutero attacca, questo conduce allo scisma tra le chiese della Riforma e la Chiesa Cattolica Romana.

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La dieta di Augusta

 

Nel 1530, la Riforma è ormai affermata, l’imperatore Carlo V convoca una dieta ad Augsburg (in latino: Augusta) per mettere a confronto le diverse confessioni. Per questa dieta Philipp Melanchton scrive la cosiddetta Confessio Augustana, una confessione di fede che evidenzia i principali punti della teologia luterana, ma fu respinta dalla parte cattolica e in seguitò diventa la confessione di base di tutte le chiese luterane. Se quindi la confessione viene chiama “luterana” oppure “di Confessione Augustana” sono solo due modi diversi per esprimere la stessa cosa.

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La proclamazione del Porto Franco di Trieste
Cesare dell’Acqua

Il luteranesimo compare a Trieste nel 1717, quando la città viene dichiarata porto franco. Per incrementare il commercio, agli stranieri viene permesso di mantenere la propria religione. A quel tempo questa era una cosa eccezionale, Trieste diventa un esempio di come tolleranza e  collaborazione pacifica potevano creare benessere spirituale e materiale per tutti.

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Nel 1717 arrivano le prime famiglie luterane dalla Germania, un numero destinato a crescere velocemente. Come primo atto istituzionale a Trieste nel 1754 viene aperto un Cimitero Evangelico, situato tra le attuali via Silvio Pellico e Corso Italia, poi spostato in Via del Monte, dove si vede ancora il vecchio ingresso.
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Al 1778 risale l’atto costitutivo della Comunità, quindi ancora prima della Patente di Tolleranza che Giuseppe II emette nel 1781 e nel 1871 si comincia la costruzione della chiesa, inaugurata nel 1874.

 

 

 

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Palazzo delle Poste

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In Piazza Vittorio Veneto, al numero 1, fa mostra di sé il Palazzo delle Poste e Telegrafi, inaugurato nel 1894 e costruito per volere dell’Impero Asburgico che con l’aumentare dei traffici portuali vedeva la necessità di un nuovo ufficio postale.

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La progettazione venne affidata all’architetto austriaco Friedrich Setz, che si ispirò al palazzo di Giustizia di Vienna, sia per quanto riguarda l’aspetto esterno che la suddivisione degli spazi interni con l’atrio e la copertura in vetro centrale e fu costruito sul terreno precedentemente occupato dal Palazzo della Dogana.

La costruzione durò 4 anni e fu difficile soprattutto per quanto riguarda le fondazioni, infatti il palazzo poggia su 5000 pali di legno, questo dovuto al fatto che fino al 1791 lì vi erano delle saline.

trIl palazzo, di 7.100 metri quadrati, venne concepito fin dall’inizio per ospitare sia gli uffici postali sia quelli della finanza, per cui l’interno è strutturato in due corpi distinti, ognuno da 3.500 metri quadrati, con ingressi separati rispettivamente in piazza Vittorio Veneto per le poste e Largo Panfili per la finanza mentre sulle vie laterali si aprono i portoni per il transito dei carri postali che portano ai cinque cortili interni. Gli uffici necessari al funzionamento della Posta furono posti al secondo piano, al quale si accede tramite uno scalone sito in fondo al vestibolo superiore. Qui fu posta la Direzione delle poste e dei telegrafi, gli uffici della contabilità, il servizio giornali e gli uffici delle corrispondenze ufficiali, mentre al terzo piano vi erano uffici interni del telegrafo e al quarto piano quelli del telefono.

pal_posta_bigL’edificio è uno dei maggiori esempi di stile eclettico in città, tipico degli edifici pubblici austriaci dell’epoca, il piano terra ed il mezzanino presentano su tutti i lati uno zoccolo in pietra viva del Carso, seguito da una zona rivestita a bugnato di cemento mentre i piani superiori sono rivestiti di conci levigati e appiattiti. Il primo ed il secondo piano, al centro, presentano sei colonne intervallate da grandi finestre timpanate, mentre all’ultimo piano troviamo delle bifore intervallate da sei statue che rappresentano la Navigazione, la Ferrovia, il Commercio, la Viticultura, l’Agricoltura, e l’Industria.

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Su Largo Panfili, come già detto, con facciata uguale all’edificio delle Poste, troviamo  il Palazzo dell’Intendenza della Finanza con l’orologio in cima, l’anno di costruzione e sei statue, queste però raffigurano Coniazione, Commercio, Industria Mineraria, Fisco, Economia e Stato. All’interno del palazzo, nell’atrio, c’è una lapide in latino:

Abbattuto dalle fondamenta il secolare edificio che Maria Teresa e Giuseppe II Augusto, avendo incrementato dunque il commercio per i loro popoli eressero a comune vantaggio della nostra patria, Leopoldo Cesare inaugurò il primo maggio 1791; questo nuovo palazzo, rinato per un migliore destino e in forma migliore, Francesco Giuseppe I piissimo sancì che fosse allestito e condotto a termine in sede più ampia, nell’anno della recuperata salvezza 1894. Questo verrà tramandato alle generazioni future.

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Si può ammirare in sommità una grande cupola a forma di calotta tronca al centro della quale è collocato un abbaino delimitato da due erme e con un orologio, al di sopra dell’abbaino è posta una statuetta di postiglione e al di sotto dell’orologio si legge l’anno di costruzione 1894 in cifre romane, sotto di esso, ora scomparsa, vi era la scritta “K.K POST-U TELEGRAFEN ANSTALT – I.R. POSTA E TELEGRAFO”. Agli angoli del palazzo vi sono due piccole cupole.

Degni di nota sono i “Puttini Postini“, posti sui timpani delle due entrate laterali di via Milano e via Galatti.Uno ha in capo il berretto tipico degli ufficiali postali austro-ungarici; con la borsa a tracolla semiaperta è immortalato nell’atto di consegnare due lettere, mentre l’altro suona la trombetta ed impugna la frusta del postiglione.

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All’interno si apre un atrio spazioso con una copertura in vetro, originariamente decorata con emblemi postali, aquile imperiali e bordure, distrutta da un bombardamento aereo del 1945, da cui parte un grandioso scalone in pietra viva con balaustrata a colonnini che da accesso al vestibolo superiore. Al primo e al secondo piano vi sono due lunghi corridoi con 16 sportelli postali dell’epoca, con il soffitto ad arcate a crociera, decorato con emblemi, fregi e stemmi dell’Impero e di tutte le sue provincie.

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Il pavimento originale era in piastre di vetro circondato da bordure verdi e fregi bianchi, andato distrutto durante la seconda guerra mondiale. Dalle arcate del primo piano si alzava la statua alta due metri in marmo di Laas, dell’Imperatore Francesco Giuseppe, infranta al crollo dell’Austria nel 1918. Sulla parete sopra lo scalone che conduce al primo piano vi erano tre dipinti ad olio di figure femminili, inseriti nelle loro nicchie e illuminati dalla luce filtrata dalla copertura in vetro, raffiguravano l’Austria al centro, la Posta a destra e il Telegrafo a sinistra. Nel 1992 “La Posta” fu messo nella nicchia centrale in occasione del centenario del Palazzo.

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Oggi è sede degli uffici postali e del Museo postale e telegrafico della Mitteleuropa. Il museo espone la storia del servizio postale nella zona Mitteleuropea ed è visitabile dal pubblico dal 1997. La sua gestione è nelle mani delle Poste Italiane e del Comune di Trieste. All’entrata è possibile ammirare un pezzo della nave laboratorio Elettra creata da Guglielmo Marconi, le cui parti sono sparse in altri monumenti cittadini, è visitabile anche la stazione fototelegrafica P.T. di TRIESTE inaugurata il 1° gennaio 1953, una fra le prime in Italia, inoltre è stato ricostruito un ufficio postale d’epoca con mobili ed attrezzature postali di matrice magiara, già appartenuti alla Posta Reale Ungherese della fine del secolo scorso.

 

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Palazzo Viviani Giberti

SAMSUNG DIGITAL CAMERAAl numero 35 di Viale XX Settembre c’è il Cinema Ambasciatori, ospitato all’interno di Palazzo Viviani Giberti, progettato da Giuseppe Sommaruga, grande esponente del liberty, e inaugurato proprio il giorno di Natale del 1907, è l’unico grande palazzo triestino ad essere firmato da un italiano.

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Il Palazzo prende il nome dai suoi due committenti, Cesare Viviani e Arturo Giberti, soci dell’impresa di costruzioni Viviani & Giberti, quindi allo stesso tempo committenti e realizzatori, e venne considerato subito come un’opera degna di ogni aspettativa per la modernità, l’eleganza e l’accuratezza dei particolari.

Image_screIl progetto iniziale prevede la realizzazione di un nuovo teatro, il “Cafè Concerto” e il “Restaurant”, mentre i cinque piani superiori ad uso abitativo. Tale struttura non viene però realizzata completamente; si completa l’allestimento del nuovo Teatro Filodrammaticoalla galleria libera e inedita , aggettante con curva e controcurva sulla platea e suddivisa al lati da basse tramezze formanti due serie di scomparti, si accedeva attraverso un’agile scala a tenaglia di cui l’ultima larga rampa apriva un più fluido collegamento tra il buffet e il restante organismo teatrale“. La grande sala era composta da due gallerie, una platea e un ampio palcoscenico, mentre le fonti contemporanee ricordano la bellezza delle pitture sulla copertura del vano scale di Giovanni Zangrando e le decorazioni a calcestruzzo di Carlo Pirovano.

Image_scre (1)La  sala teatrale “filodrammatica”, affidata alla Compagnia comica di Sichel-Galli-Guasti, viene ceduta dopo appena un anno a Windsbach e Covaz Brun, con il nome di “Eden“. Nel 1938 fu distrutta l’insegna del cinema poichè ricordava il primo ministro inglese, nazione nemica, Sir Arthur Eden il teatro quindi venne ribattezzato “Supercinema Principe” nome che perse nel 1949 con la caduta della monarchia, per tornare Eden. Nel 1947 viene requisito dagli Alleati e restituito solo nel novembre 1954 in condizioni definite deplorevoli, ma il colpo di grazia alla sala liberty lo diede l’adeguamento alle norme antincendio del 1951 per cui la sala e tutte le decorazioni andarono perse e fu riadattato a cinema. L’attuale denominazione di “Cinema Ambasciatori” risale agli anni Novanta, quando il palazzo è stato interessato da un progetto di restauro generale.

Image_scre (3)Il palazzo è di sei piani con pianta a “U”, ha la facciata principale su Viale Venti Settembre, e quelle secondarie su Via Gatteri e Brunner.
Il pianoterra presenta un rivestimento a bugnato rustico che si conclude con un ricco bassorilievo con motivi floreali mentre i piani superiori, trattati ad intonaco grezzo che simula un rivestimento di pietra; i balconcini del terzo piano sono decorati da motivi floreali mentre il quinto piano è caratterizzato da aperture arricchite da colonnine e all’ultimo piano piccole finestre rettangolari sono intervallate da pannelli a rilievo.

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Nella facciata principale l’aspetto maestoso dell’edificio è sottolineato dalle imponenti statue femminili poste sotto l’ampio ingresso, opera di Romeo Rathmann, che dividono l’ingresso in tre parti e nella parte superiore da due putti di Romeo de Paoli che sorreggono il balcone.
Le statue e i fregi non sono scolpiti come negli altri palazzi ma sono fatti in un modo quasi industriale ovvero quello della “pietra ricostituita” da Ambrogio Pirovano, su modello del Rathmann.

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Le due figure sono state battezzate “Gigogin” e “Barbara“, usanza quella del battesimo umoristico molto comune in città. Le due statue porterebbero in realtà i nome di due famose “intrattenitrici” dell’allora vicina casa di tolleranza conosciuta come la “Villa Orientale”, a loro fu anche dedicata una canzone popolare:

Se sa che l’acquedoto xe ‘l ritrovo
de tute le più bele triestine,
per quel due nove, fresche, assai carine
le se ga messo la in esposizion.

E Gigugin e BarbaraSAMSUNG DIGITAL CAMERA
vestide all’adamitica
xe tuti che le critica
chi disi ben, chi disi mal.

E Gigugin e Barbara
cresude senza macole,
se infis’cia de le ciacole,
le sa quel che le val!

Coi brazi in alto Barbara, la prima,
xe una beleza, una matrona antica;
e l’altra, che le cotole ghe pica,
xe Gigugin , un tipo original

Le ga de bon che le xe assai ben fatte,
che per spoiarsa no le fa fadiga,
che no le barufa e no le ziga,
che non le spendi un boro per magnar.

I omini le guarda e le ghe piasi,
le done ghe sospira e fila suso,
ghe xe anche quele che le storzi el muso,
ma tute devi dir che… non xe mal!

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Stazione di Campo Marzio

Trieste_museo_ferroviario01_2007-10-21 (1)L’imponente edificio che fa mostra di sé in Riva Ottaviano Augusto, angolo Via Cesare,
è la Stazione di Campo Marzio, nata con il nome di Triest Staatsbahnhof (Trieste Stazione dello Stato) per distinguerla dalla Stazione della Ferrovia Meridionale (l’attuale Stazione Centrale), costruita nel 1901 dall’architetto delle ferrovie austriache Robert Seeling e inaugurata da Francesco Ferdinando nel 1906 prima di morire a Sarajevo.

Si trattava di una stazione di testa che serviva le seguenti linee:
lòòhLinea delle Rive:
Campo Marzio – Centrale (1887-1981)
Linea Val Rosandra:
Trieste – Erpelle – Cosina (1887-1959)
Linea Parenzana:
Trieste – Buie – Parenzo (1902-1935)
Linea Transalpina:
Trieste – Salisburgo – Vienna (1906-1945)

Image_screL’edificio andava a sostituire la precedente piccola stazione di Sant’Andrea, composta da sei binari, un edificio per i viaggiatori, un magazzino e un deposito, costruito nel 1887 dalle Ferrovie di Stato austriache (kkStB) per ridurre la propria dipendenza dalla rete privata della Südbahn (Linea Merdionale), quindi aprirono la linea ferroviaria ferrovia Trieste-Erpelle dotando la città di una seconda stazione e raccordata con un binario (Linea delle Rive) alla stazione Centrale. Nei primi anni del Novecento fu costruita la Linea Transalpina e il porto nuovo con conseguenti lavori di interramento nella zona compresa tra la Lanterna e l’Arsenale del Lloyd, questo rese necessario la costruzione di una nuova stazione più grande.

8171782027_4a86105ec2_oLa nuova stazione, inaugurata nel luglio del 1906, era dotata di 24 binari, di una tettoia viaggiatori e di uno scalo merci con due vasti magazzini serviti da binari coperti. Tra il fabbricato viaggiatori ed i magazzini venne sistemato il piazzale a scartamento ridotto della “Parenzana” con le relative attrezzature. Fu anche realizzato un deposito locomotive con rimessa a dieci binari, servita da una piattaforma girevole di 18 metri.

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La struttura della stazione è caratterizzata da una pianta a “U”, con la facciata principale su Riva Ottaviano Augusto, verso il mare, costituita da due corpi laterali di tre piani e un corpo centrale leggermente arretrato, le facciate sono tipicamente liberty e presentano ampie vetrate interrotte da una tettoia in ferro.
Nei corpi laterali semicolonne in stile neorinascimentale fiancheggiano le finestre centrali, mentre sul tetto corre una balaustra con pilastri ornati da cartigli agli angoli. Il corpo centrale presenta al pianterreno decorazioni vegetali sotto ai frontoni delle finestre, mentre al centro si eleva un timpano a semicerchio sormontato da un decoro a conchiglia.

altopiano093-600Nel lato su via Giulio Cesare l’ingresso principale è sormontato da un elemento scultoreo in stucco a rilievo raffigurante una ruota fiancheggiata da due ali, a simboleggiare la Ferrovia mentre ai lati dell’arco sono presenti due stemmi incorniciati raffiguranti, uno l’alabarda di Trieste e uno lo stemma sabaudo (chiaramente di epoca posteriore), vi sono poi un’ampia finestra termale fiancheggiata da due torrette, inoltre alcune finestre del piano terra presentano decorazioni vegetali scolpite.

stazionecampomarzio-viNel 1921, le Ferrovie Italiane cambiarono la denominazione della Stazione con quella attuale di Campo Marzio e nel 1942 venne rimossa la grande volta in ferro e vetro che proteggeva le testate dei binari, simile a quella della Stazione Centrale di Milano, nel corso della raccolta del “ferro alla patria” che aveva caratterizzato il periodo bellico.
Nel primo dopoguerra, pur essendo uno scalo di grande capacità e moderno, l’importanza della Stazione diminuì: da un lato era venuta a cessare la sua funzione di concorrenza nei confronti della Ferrovia Meridionale (che all’epoca dell’inaugurazione era gestita da una società privata, mentre ora l’intera rete apparteneva alle Ferrovie dello Stato), dall’altro i nuovi confini avevano mutato gli equilibri economici e le direttrici del traffico.
I servizi viaggiatori a lungo percorso diminuirono sino a cessare del tutto con la seconda guerra mondiale, infatti nel 1935 venne chiusa la Parenzana, nel 1945 la Transalpina e, nel 1959 la linea per Erpelle, l’ultimo servizio passeggeri.

jhgGli edifici vennero lasciati in degrado fino all’8 marzo 1984, quando si decise di aprire
il Museo Ferroviario di Trieste Campo Marzio e di restaurare il complesso.
Il museo è dedicato alla storia delle ferrovie e i relativi mezzi di locomozione, personale, sistemi di manutenzione e gestione, è uno dei pochi in Italia completamente dedicati alle “strade ferrate” e l’unico ospitato all’interno di una stazione ferroviaria.
10166289044_29e198574d_oLa collezione, opera di donazioni di privati cittadini, è una vera “testimonianza storica” di un periodo che va dalla prima metà dell’800 alla prima metà del ‘900 e comprende, oltre a locomotive, carrozze e tram d’epoca alcuni ancora funzionanti, cimeli storici di vario tipo, segnaletica d’epoca, fotografie di mezzi e stazioni del periodo asburgico e la ricostruzione di una biglietteria dei primi del’900 e dell’ufficio del capostazione, il tutto in varie sale dell’ala un tempo dedicata ai passeggeri e nel primo salone, quello principale, decorato in stile liberty.
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Un vero e proprio tuffo nel passato nelle sale d’aspetto con le stufe originali in maiolica, la piumata feluca del primo capostazione, montagne di cimeli e un secolo di vaporiere schierate all’esterno.

 

 

 

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Hotel Balkan o Narodni Dom

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In Via Filzi 14 troviamo l’ex Hotel Balkan, o Narodni Dom, ora sede della Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori (SSLMIT) dell’Università di Trieste, costruito nel 1902-1904 dall’architetto Max Fabiani.

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Il 2 Ottobre 1902 la Trzaska Posojilnica in Hranilnica (Cassa Depositi e Prestiti slovena) richiede il permesso di costruire una casa ad abitazione cittadina con inclusa la sua sede, che si affacciasse su Piazza della Caserma (oggi Piazza Oberdan, dopo la costruzione di Palazzo Vianello non si affaccia più sulla piazza ma su Via Filzi).

1900.Trieste.-Narodni-DomIl progetto definitivo prevede un edificio in parte destinato ad abitazioni, in parte a diverse associazioni della comunità slovena (il Narodni Dom, Casa della Cultura) che sta prendendo coscienza, non senza malumori dei triestini, della sua individualità linguistica e culturale.

Il 18 Aprile 1903 comincia la costruzione dell’edificio, con il Narodni Dom si realizza un grande centro comunitario, dove si concentra la vita economica, politica, culturale, artistica e sociale della minoranza slovena, molto attiva agli inizi del secolo, è il primo esempio di struttura polifunzionale in Italia e in Europa, conteneva infatti un piccolo teatro con galleria, una banca, una palestra, due caffè, due ristoranti, un albergo ed un considerevole numero di appartamenti, il tutto distribuito in maniera articolata intorno ad un cavedio (piccolo cortile) centrale.

NDom-001L’immobile, a pianta quadrata con un cortile centrale, era caratterizzato da una grande razionalità e funzionalità nella distribuzione degli spazi interni.
Al piano terra si trovava il grande atrio, un ingresso in stile Secessione ornato con vetrate realizzate da Koloman Moser, il ristorante, il caffè, le sale di rappresentanza su due piani, la palestra con i servizi; da una doppia scala monumentale si accedeva alla platea del teatro, decorato da Pietro Lucano.
Al primo piano si giungeva alla galleria del teatro, coperto da un lucernaio, la stamperia, la Cassa di Risparmio, la Mutua e locali destinati alla vita culturale.
Ai piani superiori c’era anche un albergo con 36 stanze singole, 24 matrimoniali e 12 appartamenti, mentre nel sottotetto vi erano gli alloggi per il personale di servizio.
L’esterno semplice ed essenziale, il tradizionale bugnato al primo piano viene sostituito dalla pietra liscia, il resto della facciata è rivestito da mattoni a vista di due tonalità cromatiche diverse, creanti un motivo ornamentale geometrico.

la-storia-del-narodni-dom-o-il-battesimo-dell-L-1Nel luglio del 1920 l’edificio, in un periodo di forti tensioni politiche e sociali (fascismo) che vedono coinvolta anche Trieste, in quanto centro culturale della comunità slovena e simbolo visivo della crescente potenza numerica, economica e culturale che andava acquisendo, venne distrutto da un incendio appiccato da squadristi fascisti, fu quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”.
Le relazioni tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni erano estremamente tese, infatti la questione di Fiume era ancora aperta e le trattative tra i due stati procedevano in un clima di veti e minacce reciproche. A Trieste era diventato segretario cittadino del Partito Fascista Francesco Giunta che colse a pretesto l’uccisione di due militari italiani a Spalato e convocò un comizio nel tardo pomeriggio del 13 luglio 1920 in piazza dell’Unità con il motto “è finito il tempo del buon Italiano”. La questura prevedeva che nel pomeriggio probabilmente ci sarebbero stati dei disordini, e predispose ingenti misure di protezione delle associazioni politiche, culturali ed economiche slave di Trieste. La tensione era molto alta e Giunta pronunciò un discorso dal tono e dai contenuti estremamente violenti e minacciosi:

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«Ora si deve agire; abbiamo nelle nostre case i pugnali ben affilati e lucidi, che deponemmo pacificamente al finir della guerra, e quei pugnali riprenderemo per la salvezza dell’Italia. I mestatori jugoslavi, i vigliacchi, tutti quelli che non sono con noi ci conosceranno (…)»

Verso la fine del comizio, fu accoltellato mortalmente il cuoco della trattoria Bonavia, Giovanni Nini e dal palco si annunciò che un italiano “ex-combattente” era stato ucciso da uno slavo.  Gruppi di manifestanti lasciarono la piazza, danneggiando negozi gestiti da sloveni, assaltando alcune sedi di organizzazioni slave e socialiste, prendendo a sassaiole la sede del consolato jugoslavo di via Mazzini, e devastando gli studi di diversi professionisti.

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La folla si riunì presso il Narodni dom e iniziarono ad assediare l’edificio da ogni lato, circondato da oltre 400 fra soldati, carabinieri e guardie per mantenere l’ordine. Dal terzo piano dell’edificio fu lanciata una bomba a mano, cui seguì una scarica di colpi di fucile contro la folla, ferendo otto persone e uccidendo Luigi Casciana, tenente dei carabinieri, a quel punto anche i militari risposero al fuoco verso l’edificio. Da qui la ricostruzione della dinamica dei fatti è controversa, i fascisti forzarono le porte dell’edificio, vi gettarono all’interno alcune taniche di benzina e diedero fuoco, dopodiché impedirono ai pompieri di spegnere l’incendio. Image_scre

Alcuni sottolineano le responsabilità dei militari che avevano il compito di proteggere l’edificio, i quali non fermarono gli aggressori, ma di fatto si unirono a loro. Tutti gli ospiti del Narodni Dom riuscirono a salvarsi, ad esclusione del farmacista Hugo Roblek.
L’incendio fu domato completamente solo il giorno successivo.
Giani Stuparich lo chiamò «tragico spettacolo» e segnò in maniera profonda lo scontro etnico e politico tra italiani e sloveni “una visione funesta di crolli e rovine come se qualcosa di assai più feroce della stessa guerra passata minacciasse le fondamenta della nostra civiltà”.

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L’edificio, devastato dal fuoco e completamente distrutto all’interno,  fu espropriato alle organizzazioni slovene (che vennero definitivamente dissolte con decreto nel 1927) e fu rilevato da una società che ristrutturò completamente l’edificio chiamandolo Hotel Regina,  su progetto di Camillo Jona, conservando dell’edificio originale solo le facciate, i marmi dei pavimenti, e una scala con la gabbia dell’ascensore.
Nel 1923 inizia la costruzione di Palazzo Vianello che lo esclude di fatto dalla rinnovata Piazza Oberdan, soffocandolo in Via Filzi.

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Nel 1976 l’edificio viene acquistato dalla Regione  Autonoma Friuli Venezia Giulia e ceduto all’Università degli Studi di Trieste, per diventare la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori (SSLMIT), ed è significativo che nell’edificio simbolo dell’inizio della repressione fascista nei confronti della comunità slovena oggi vi sia una facoltà universitaria a sua volta simbolo della fratellanza universale, dove si insegnano le lingue del mondo.

 

 

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La Casa del Fauno

casa Valdoni2In Via Commerciale 25 sorge Casa Valdoni, detta “Casa del Fauno” per la statua sulla facciata. Venne edificate nel 1908, in stile liberty, per volere della famiglia del chirurgo Pietro Vanoni, ed è opera di Giorgio Zaninovich.

L’11 Novembre 1907 l’architetto presentò domanda di fabbrica, ma gli venne rifiutata dal Magistrato civico, in quanto non era del tutto corrispondete alla normativa nella ripartizione dei vani interni, il progetto viene rivisto e approvato il 23 dicembre 1907, ma nel permesso di fabbrica la data è erroneamente quella del 23 gennaio 1907.

hsfL’edificio è a sei piani, la parte centrale completamente liscia presenta finestre lunghe e strette prive di decorazioni, mentre le ali laterali, arretrate rispetto al corpo centrale, sono invece caratterizzate a partire dal secondo piano da balconi con balaustra in pietra dalle decorazioni molto elaborate, con monumentali capitelli e figure antropomorfe. Il pianoterra è rivestito a bugnato rustico dal quale sporgono conci di pietra.

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Il portone d’ingresso presenta eleganti decorazioni geometriche ed è incorniciato da foglie d’acanto stilizzate mentre all’ultimo piano ci sono lateralmente due balconcini semicircolari con ringhiera in ferro battuto, e in quello sinistro una coppia di fanciulli si ripara sotto una cascata di fiori.

koAl centro della facciata, due grandi mensole a voluta sorreggono un balcone, si vedono due coppie di bimbi circondati da piante e fiori in atteggiamento di cantare o di richiamarsi tra di loro, mentre ai due lati appaiono un fauno che suona il flauto e, all’opposto, una ninfa purtroppo mutilata, che forse sorreggeva una lira.

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All’interno le scale sono abbellite da una pregevole ringhiera liberty in ferro.

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I giorni di Trieste: 1914 – “Trieste deve tornare all’Italia”

 imag05I giorni di Trieste: La città in guerra
Teatro Verdi 15/12/2013
Prof Mario Isnenghi

Trieste deve “tornare” all’Italia: questo hanno pensato generazioni di italiani prima e dopo il ‘14 – ’18. La buona fede non è però garanzia di veridicità.

Centenario verdianoTrieste non era mai stata parte integrante dell’Italia, da 500 anni il suo territorio faceva parte dell’Impero Austroungarico, ma non lo si voleva riconoscere e neppure si sapeva quanti sloveni, tedeschi, ebrei, croati, ungheresi, greci e serbi lo abitavano. Si voleva credere che tutti fossero sempre stati irredentisti, animati dall’unico desiderio di far diventare la città il simbolo di una guerra benedetta e voluta.

Poco prima dell’inizio della Grande Guerra, la popolazione di Trieste aveva toccato i 230.000 abitanti;  gli sloveni rappresentavano il 25% (ce n’erano più a Trieste che a Lubiana) e il 5% era composto da tedeschi, Trieste da città italiana stava diventando solo a maggioranza italiana, e con i ritmi dell’epoca non lo sarebbe rimasto nemmeno a lungo.

In quegli anni quindi si faceva sempre più aspro il dibattito tra l’interesse economico della città e l’idea di nazione, posizioni che cominciavano a delinearsi in evidente contrasto. I diversi schieramenti erano incarnati da tre illustri personaggi dell’epoca:

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  • Scipio Slataper: sostenitore di un irredentismo democratico, sperò fino all’ultimo che fosse possibile sanare il contrasto, anteponendo interessi culturali ed economici a quelli politici.
  • Ruggero Timeus: irredentista e nazionalista, la città doveva assolutamente passare all’Italia e poi proiettarsi imperialisticamente verso i Balcani.
  • Angelo Vivante: socialista e anti irredentista, vedeva come unico futuro per Trieste quello di restare nell’Impero, ma trasformato in una confederazione, quando comprese il crollo del suo sogno si suicidò.

I liberalnazionali che governavano la città si posero il problema di quali ripercussioni avrebbe avuto sull’economia cittadina un’eventuale annessione all’Italia, erano sicuri che in ogni caso non si sarebbe potuto cancellare il legame tra il Porto di Trieste e l’Impero, non avevano però previsto che alla fine della guerra sarebbe stato dissolto.

prima-guerra-mondiale-trinceaIntanto in Italia il “Fronte Interventista” fa uscire il Paese dall’iniziale neutralità, proiettandola nel conflitto già in atto da dieci mesi. Nasce la propaganda, ovvero una falsa costruzione di miti sentiti come veri per galvanizzare le masse; letterati, poeti, giornalisti, sindacalisti rivoluzionari, alimentano il mito del «ritorno di Trieste e Trento all’Italia» anche se la città in precedenza mai era stata italiana. La guerra viene rappresentata come una resa dei conti e il compimento finale del Risorgimento.

cacciatelaustriaco1915

Il conflitto aveva portato in superficie un misto di insoddisfazione, orgoglio, e ribellione che portarono alla rottura dei rapporti di collaborazione con l’Impero Austroungarico alla mobilitazione e alla dichiarazione di guerra.

Gli irredentisti che indossarono la divisa dell’esercito di Vittorio Emanuele III, furono 600, mentre i triestini fuggiti in Italia 1000; molti quelli rinchiusi nei campi di internamento austriaci. Al contrario circa 40.000 triestini risposero alla chiamata alle armi dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Era il 28 luglio 1914 e sui muri della città comparve il proclama redatto in nove lingue: “Ai miei popoli”.
Un secondo proclama fu affisso il 23 maggio 1915, quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria:

neg.740587/17 -  L'Imperatore Francesco Giuseppe  ©Archivio Publifoto/Olycom

Il re d’Italia mi ha dichiarato guerra. 

Un tradimento di cui la Storia non conosce uguale è stato commesso dal regno d’Italia contro i suoi due alleati.
Dopo un’alleanza durata oltre trent’anni l’Italia ci ha abbandonati nell’ora del pericolo per passare, a bandiera spiegata, nel campo nemico.
Noi non abbiamo minacciato l’Italia, non ne abbiamo sminuito la considerazione, né tantomeno l’onore e gli interessi.

Questo proclama è l’ultimo affisso a Trieste dell’ormai anziano imperatore la cui figura simboleggiava tristemente il declino dell’Impero. L’ultima feroce reazione avvenne nei primi giorni del maggio 1915: furono assaltate e bruciate la redazione e la tipografia del Piccolo, la sede della Ginnastica Triestina, il Caffè San Marco, venne fatta a pezzi la statua di Giuseppe Verdi e altre devastazioni.

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Ma ormai l’Impero, sconfitto, si rassegnò alla vittoria italiana e alla perdita di Trieste. Il futuro incerto e di abbandono dimostrò quanto, sebbene non venisse ammesso, i due destini, Trieste e Impero, fossero uniti, in un’unica entità statale. Fu salvata un’italianità ormai in pericolo, ma a caro prezzo: la città aveva irrimediabilmente perso la sua importanza e prosperità.

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I Caffè storici

IMG_6152Trieste è senz’altro conosciuta per i suoi numerosi Caffè.
Chi non è triestino però vive una profonda delusione quando, ordinato un cappuccino, si trova davanti una misera tazzina di caffè macchiato, chiamato “capo in b”. Il mistero è presto risolto:

 COME SI ORDINA IL CAFFÈ A TRIESTE

Caffè -> un nero
Caffè macchiato -> un capo
Caffè nero in bicchiere -> un nero in B
Caffè macchiato in bicchiere -> Un capo in B
Cappuccino -> un caffelatte

Per una pausa-caffè è consigliabile uno dei caffè storici triestini, per tuffarsi nelle magiche atmosfere di fine Ottocento e inizi del Novecento.
La città, che poteva vantare un porto tra i più importanti del Mediterraneo in grado di collegare l’impero austro-ungarico con l’oriente, era meta di visitatori provenienti da tutto il mondo.
Alla metà dell’Ottocento esistevano a Trieste 54 caffè, e appena qualche decennio dopo, esattamente nel 1911, erano 98.
Fedeli al modello viennese che individuava nel caffè il luogo privilegiato per incontrarsi oppure trascorrere in compagnia di un libro o un giornale il tempo libero, si svilupparono una serie di locali di grande prestigio. In breve divennero i “salotti buoni” cittadini, quelli in cui si riunivano gli intellettuali, gli imprenditori, la ricca borghesia, i politici.

Caffè Tommaseo

All’epoca “Caffè Tomaso” dal nome del suo fondatore Tomaso Marcato, è il più antico Caffè di Trieste. Si trova in Piazza Tommaseo, ovvero “Piazza dei Negozianti”, ed è sin dal 1830 ritrovo di uomini d’affari e politici. Il locale è elegante con strutture neoclassiche, le belle specchiere sono giunte cent’anni fa dal Belgio e le sedie di legno sono in stile Thonet. Il Caffé Tommaseo fu uno dei primi in città ad offrire il gelato e ad essere dotato di illuminazione a gas. Sotto il dominio dell’Impero austroungarico fu base di rivoluzionari come ricorda un’insegna:
“Da questo Caffè Tommaseo, nel 1848, centro del movimento nazionale, si diffuse la fiamma degli entusiasmi per la libertà italiana.”

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Caffè Tergesteo

Si trova dal 1863 all’interno dell’omonima Galleria in Piazza della Borsa, di fronte allo storico Teatro Verdi. Classico luogo di incontro e passaggio cittadino, frequentato di giorno da uomini d’affari della vicina Borsa e di sera dall’elite culturale della città, oggi è situato all’interno della Galleria.
Ha da poco concluso dei lavori di restauro, per ricreare l’atmosfera di fin de siécle, ma dell’originale purtroppo è rimasto ben poco; da notare le vetrate colorate che raffigurano episodi della storia triestina. Ad esso Saba dedicò una lirica raccolta nel Canzoniere
Caffè Tergesteo… tu concili l’italo e lo slavo, a tarda notte, lungo il tuo bigliardo“.

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Caffè degli Specchi

Il più rinomato caffé di Trieste è  il Caffé degli Specchi, in Piazza Unità d’Italia , al pianterreno del Palazzo Stratti. All’inaugurazione, avvenuta nel lontano 1839, seguirono problemi di carattere finanziario che spinsero il proprietario alla cessione dell’intero edificio alle Assicurazioni Generali. Nel 1846 il caffé riaprì i battenti sotto la direzione di Nicolò Priovolo, il quale cedette l’attività nel 1884 a due professionisti del settore del caffé: Antonio Cesareo e Vincenzo Carmelich. Cesareo, già gestore del Caffé Stella Polare. Nel 1933 i due gestori decisero di far ristrutturare i locali del caffé, introducendo una novità: la corrente elettrica. Durante la Seconda Guerra Mondiale il caffé venne requisito dalle forze militari per esigenze belliche ed adibito ad alloggio per truppe, magazzino e stalla. Nel 1945 gli angloamericani lo utilizzarono come quartier generale per la Royal Navy (la marina britannica). Fino al 1954, anno in cui Trieste venne annessa all’Italia, il caffé permetteva l’ingresso ai triestini solamente qualora accompagnati da militari britannici.
A dare il nome al caffé tanto amato da letterati del calibro di Joyce, Svevo e Kafka, fu l’idea del primo gestore del locale, di ricoprire le pareti con incisioni, realizzate su specchi recanti ciascuno il ricordo di un fatto storico verificatosi in Europa nell’Ottocento. Inoltre, gli specchi avevano il gran pregio di dare luminosità al locale anche alla flebile luce del tramonto, consentendo così il prolungamento della permanenza dei clienti nel locale senza l’uso di lampade ad olio.
Ai giorni nostri, dei molti specchi che erano affissi alle pareti (e che vennero sottratti a più riprese dai diversi eserciti d’occupazione di passaggio in città) ne rimangono esposti soltanto tre originali, mentre gli altri sono conservati in luogo appartato per proteggerli dall’umidità e dalla salsedine.

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Caffè San Marco

Fondato il 3 gennaio 1914 in via Battisti 18, il Caffé San Marco ha sempre rappresentato il luogo d’incontro per eccellenza degli intellettuali della città. Il caffé venne aperto in un edificio di proprietà delle Assicurazioni Generali,  proprietario e gestore del locale era Marco Lovrinovich. Il suo caffé, dove si andava a leggere il giornale e a discutere di politica, arte e cultura, divenne quasi da subito punto di ritrovo per intellettuali (tra i frequentatori del caffé all’epoca Italo Svevo, Umberto Saba, James Joyce, Gianni Stuparich e Virgilio Giotti) e giovani irredentisti, tanto che, al suo interno, si iniziò perfino a falsificare passaporti in modo da consentire la fuga di patrioti antiaustriaci in Italia. Il 23 maggio 1915 il locale venne prima devastato e poi chiuso da un gruppo di soldati dell’esercito austrungarico, che cacciarono Lovrinovich e lo fecero incarcerare successivamente a Liebenau, reo di non voler combattere per l’esercito austrungarico.
Il suo arredamento si distingue per le caratteristiche decorazioni con foglie di caffè, i tavolini di marmo con gambe in ghisa i cui piedistalli sono a forma di zampe di leone, simbolo di irredentismo, il bancone di legno intarsiato, i nudi dipinti sui medaglioni alle pareti, le specchiere e gli affreschi originali . La disposizione dei tavolini, a ferro di cavallo, seppur non molto comoda, conferisce singolarità ed originalità all’ambiente, ancora oggi apprezzato luogo di ritrovo dei triestini.
Frequentatore assiduo del caffé, tra gli altri fu James Joyce, il quale assaporando i raffinati dolci di tipo austriaco, ma soprattutto degustando i pregiati vini, progettò qui il suo “Ulisse“.

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Caffè Stella Polare

Il Caffè Stella Polare, aperto nel 1865, si trova in Piazza Sant’Antonio, vicino al Canal Grande, accanto alla chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione.
All’inizio del 1904 il vecchio stabile sul Canale venne abbattuto per far posto all’attuale palazzo, allora il Caffè Stella Polare fu sistemato, in via provvisoria, in un padiglione di legno e gesso, sistemato di fronte alla Chiesa di Sant’Antonio Nuovo.
Nato come tipico locale austro-ungarico, con le classiche decorazioni di stucchi e specchi in parte ancora presenti, presentava un bancone in legno di ciliegio ed era dotato di sale da biliardo, sale per le riunioni e per la lettura. Il locale è stato per anni rifugio di negozianti e intellettuali sia triestini che stranieri; con la fine della seconda guerra mondiale e l’arrivo degli anglo-americani in città, questo Caffè divenne una famosa sala da ballo: da qui mote ragazze triestine presero il mare per gli Stati Uniti, spose di giovani soldati americani.

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Antico Caffè Torinese

L’Antico Caffè Torinese fu aperto nel 1919 all’angolo tra Corso Italia e Via Roma. Gli arredi interni, la boiserie dalle vetrine alle nicchie al soffitto, ricordano quelli di un transatlantico della belle epoque, e sono infatti opera dall’ebanista Debelli, che a inizio Novecento aveva realizzato anche i lussuosi interni delle famose navi passeggeri Vulcania e Saturnia.
L’antico lampadario in cristallo rende l’ atmosfera ancora più suggestiva.

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Bar Urbanis

Il piccolo ed intimo Bar ex Urbanis, tra Piazza della Borsa e Piazza Unità, sull’angolo del Palazzo del Tergesteo, è nato dalle ceneri di una pasticceria della prima metà dell’Ottocento, ed è impreziosito da un pavimento a mosaico che reca la data storica della sua fondazione: 1832; le immagini del mosaico riguardano il mare, la Bora e la  mitologia.

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Casa Bartoli

In piazza della Borsa al civico 7, proprio di fronte all’imponente Palazzo della Borsa Vecchio, c’è Casa Bartoli, chiamata la “Casa Verde”, un edificio progettato a inizio Novecento dall’architetto Max Fabiani in puro stile liberty, decorato sulla facciata con decorazioni geometriche e floreali di grande eleganza.

La Casa fu costruita nel 1906 con una particolare attenzione agli effetti decorativi del Liberty, come la bella ornamentazione a cascata di foglie d’acanto tra le finestre, i cassettoni del cornicione e l’elegante sviluppo dei balconi in facciata con il parapetto in ferro verniciato di verde e decorato con motivi geometrici.

L’edificio fu costruito interamente in cemento armato, all’epoca usato solo per le strutture portanti, mentre la sua pianta particolare deriva dalla forma del lotto, determinata dalla saldatura della città medievale con quella teresiana.
La modernità non è tanto rappresentata dalla decorazione floreale in facciata, quanto, piuttosto, dalla multifunzionalità dell’edificio. Infatti diversamente da tanti palazzi, fin dall’inizio non era stata pensata per un uso soltanto residenziale, anzi, parte della struttura era riservata ad attività economiche, con la presenza di negozi e uffici, tra cui i più importanti sono il deposito di manifatture Antonio Bartoli & Figlio, il Centro Casa Croff, e la Libreria Gulliver.

I primi livelli erano adibiti a magazzini e fori commerciali e presentano ampie vetrate, mentre la veranda, caratterizzata da eleganti elementi in ghisa, fungeva invece da giardino d’inverno di un ristorante kosher, il “Restaurant Golberger”, che permetteva agli ebrei osservanti di rimanere nella zona commerciale anche durante l’ora di pranzo, chiuso negli anni Trenta.

Il passaggio tra la parte commerciale e quella realmente privata della casa è segnato dal lungo ed elegante balcone posto sopra la veranda.
La soluzione più innovatrice dell’architetto fu, per dare maggior risalto alle vetrine, di spostare il portone d’ingresso dalla facciata principale, quella sulla piazza, a una piccola rientranza sul lato sinistro.
Si dice che i fregi floreali degli ultimi due piani siano stati imposti a Max Fabiani dalla Commissione d’Ornato per abbellire di più il palazzo ed essere così approvato, perché era considerato troppo all’avanguardia.

Casa Bartoli è il più bell’esempio di Liberty a Trieste e vale davvero la pena di fermarsi ad osservarla.

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