I giorni di Trieste: La città in guerra
Teatro Verdi 15/12/2013
Prof Mario Isnenghi
Trieste deve “tornare” all’Italia: questo hanno pensato generazioni di italiani prima e dopo il ‘14 – ’18. La buona fede non è però garanzia di veridicità.
Trieste non era mai stata parte integrante dell’Italia, da 500 anni il suo territorio faceva parte dell’Impero Austroungarico, ma non lo si voleva riconoscere e neppure si sapeva quanti sloveni, tedeschi, ebrei, croati, ungheresi, greci e serbi lo abitavano. Si voleva credere che tutti fossero sempre stati irredentisti, animati dall’unico desiderio di far diventare la città il simbolo di una guerra benedetta e voluta.
Poco prima dell’inizio della Grande Guerra, la popolazione di Trieste aveva toccato i 230.000 abitanti; gli sloveni rappresentavano il 25% (ce n’erano più a Trieste che a Lubiana) e il 5% era composto da tedeschi, Trieste da città italiana stava diventando solo a maggioranza italiana, e con i ritmi dell’epoca non lo sarebbe rimasto nemmeno a lungo.
In quegli anni quindi si faceva sempre più aspro il dibattito tra l’interesse economico della città e l’idea di nazione, posizioni che cominciavano a delinearsi in evidente contrasto. I diversi schieramenti erano incarnati da tre illustri personaggi dell’epoca:
- Scipio Slataper: sostenitore di un irredentismo democratico, sperò fino all’ultimo che fosse possibile sanare il contrasto, anteponendo interessi culturali ed economici a quelli politici.
- Ruggero Timeus: irredentista e nazionalista, la città doveva assolutamente passare all’Italia e poi proiettarsi imperialisticamente verso i Balcani.
- Angelo Vivante: socialista e anti irredentista, vedeva come unico futuro per Trieste quello di restare nell’Impero, ma trasformato in una confederazione, quando comprese il crollo del suo sogno si suicidò.
I liberalnazionali che governavano la città si posero il problema di quali ripercussioni avrebbe avuto sull’economia cittadina un’eventuale annessione all’Italia, erano sicuri che in ogni caso non si sarebbe potuto cancellare il legame tra il Porto di Trieste e l’Impero, non avevano però previsto che alla fine della guerra sarebbe stato dissolto.
Intanto in Italia il “Fronte Interventista” fa uscire il Paese dall’iniziale neutralità, proiettandola nel conflitto già in atto da dieci mesi. Nasce la propaganda, ovvero una falsa costruzione di miti sentiti come veri per galvanizzare le masse; letterati, poeti, giornalisti, sindacalisti rivoluzionari, alimentano il mito del «ritorno di Trieste e Trento all’Italia» anche se la città in precedenza mai era stata italiana. La guerra viene rappresentata come una resa dei conti e il compimento finale del Risorgimento.
Il conflitto aveva portato in superficie un misto di insoddisfazione, orgoglio, e ribellione che portarono alla rottura dei rapporti di collaborazione con l’Impero Austroungarico alla mobilitazione e alla dichiarazione di guerra.
Gli irredentisti che indossarono la divisa dell’esercito di Vittorio Emanuele III, furono 600, mentre i triestini fuggiti in Italia 1000; molti quelli rinchiusi nei campi di internamento austriaci. Al contrario circa 40.000 triestini risposero alla chiamata alle armi dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Era il 28 luglio 1914 e sui muri della città comparve il proclama redatto in nove lingue: “Ai miei popoli”.
Un secondo proclama fu affisso il 23 maggio 1915, quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria:
“Il re d’Italia mi ha dichiarato guerra.
Un tradimento di cui la Storia non conosce uguale è stato commesso dal regno d’Italia contro i suoi due alleati.
Dopo un’alleanza durata oltre trent’anni l’Italia ci ha abbandonati nell’ora del pericolo per passare, a bandiera spiegata, nel campo nemico.
Noi non abbiamo minacciato l’Italia, non ne abbiamo sminuito la considerazione, né tantomeno l’onore e gli interessi.”
Questo proclama è l’ultimo affisso a Trieste dell’ormai anziano imperatore la cui figura simboleggiava tristemente il declino dell’Impero. L’ultima feroce reazione avvenne nei primi giorni del maggio 1915: furono assaltate e bruciate la redazione e la tipografia del Piccolo, la sede della Ginnastica Triestina, il Caffè San Marco, venne fatta a pezzi la statua di Giuseppe Verdi e altre devastazioni.
Ma ormai l’Impero, sconfitto, si rassegnò alla vittoria italiana e alla perdita di Trieste. Il futuro incerto e di abbandono dimostrò quanto, sebbene non venisse ammesso, i due destini, Trieste e Impero, fossero uniti, in un’unica entità statale. Fu salvata un’italianità ormai in pericolo, ma a caro prezzo: la città aveva irrimediabilmente perso la sua importanza e prosperità.
Questo resoconto non fa una piega è obbiettivo e reale.Va ancora aggiunto che tanti poveri Italiani credendo nella prosperità di questa città,arrivarono con buone intenzioni di lavoro,appena finita la guerra,ma tristemente dovettero sincerarsi che con l’avvento dell’Italia in questi territori,quelle valide opportunità erano svanite! Colpa dell’Italia? Dei lavoratori? DI chi allora? Di nessuno la storia a volte viene cambiata grazie o colpa di un sasso sotto una ruota!Ballilla insegna!
A proposito della partecipazione o meno per l’Italianità di Trieste, voglio segnalare questo fatto. In piazza del Ponterosso, dove esisteva un fiorente mercato agricolo,,…ebbene le cosidette”venderigole” organizzarono una colletta,a cui parteciparono migliaia di persone, per far dono al loro aviatore De banfield,detto l’aquila solitaria,che combatteva per l’Austria,di una preziosa targa con le foglie di quercia in oro,e la scritta vinci per noi! L’aviatore disse poi a guerra finita,che ci teneva più a quel riconoscimento che a quello della Legione d’onore offertagli da Francesco Giuseppe in persona.
Mi spiace per voi, ma un “Impero Austroungarico” non è mai esisito. Si può parlare solo di Impero Asburgico e dopo il 1815, di Impero Austriaco; prima si poteva parlare di Sacro Romano Impero, quando fu guidato dagli Asburgo. Successivamente al 1867, si può parlare di Austria Ungheria, costituito da due Stati Indipendenti e Sovrani. L’Impero austriaco terminò nel 1918 a causa dei noti avvenimenti.